Giovedi 4 luglio
a Cura di Vinile Sounds Food il concerto Generatori di Corrente
Giovedì 11 luglio
Grigio: duo elettropop con colori anni 80 con Gabriele Gaggioli e Gianluca Manini
Giovedì 18 luglio
Angelo Adamo live solo con armonica cromatica
Giovedì 25 luglio
jus bros In concerto a cura di Vinile Sounds food
Ingresso gratuito
si consiglia sempre di verificare sul sito www.lacollinadellemeraviglie.it o su Fb o telefonando al 3491717883
presentazione del libro
Il poeta e scrittore Michele Caccamo presenta Con le mani cariche di rose (Elliot Edizioni).
Ne parla con Vanni Schiavoni e Andrea Donaera (Centro di poesia contemporanea dell'Università di Bologna).
un fumetto di Maurizio Lacavalla
Due attese
di Maurizio Lacavalla
Edizioni BD
Emidio Clementi ne parla con l'autore.
con Teo Ciavarella e Marco Pignataro
Teo Ciavarella e Marco Pignataro condividono musica da diversi anni, hanno tenuto concerti insieme nelle Americhe e in Europa e hanno registrato dischi tra i quali “Per Sempre” con M
Marvuglio, Massimo Manzi e il mito Eddie Gomez. Felici di ritrovarsi a Bologna, città natale di Marco Pignataro, eseguiranno un programma di composizioni originali dedicate ai “Due M
Standards della tradizione jazzistica.
Con loro sul palco di Piazza Verdi due musicisti straordinari: Francesco Angiuli e Paolo Orlandi.
Marco Pignataro: sax
Teo Ciavarella: piano
Francesco Angiuli: contrabbasso
Paolo Orlandi: batteria
Sabato 6 Luglio dalle ore 21 Concerto Blues circondati da castagneti secolari con ingresso gratuito e menù dedicato.
Info:348-2714259 - info@leselvecasteldelrio.it
concerto
Concerto di Yefira: Aleksandar Sasha Karlic, voce, oud, saz; Simona Gatto, voce, daf persiano, darabuka, tapan; Fabio Resta, gajda macedone, kaval, nay, clarinetto; Diego Resta, tambûr turco, kemançe, gadulka, def e con Asher Alkalay, canto e qanun.
Progetto speciale a cura di Museo Ebraico di Bologna in occasione della mostra “LA CASA DELLA VITA. Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna”.
Asher Alkalay è cantore della sinagoga di Belgrado Sukat Shalom. Le sue ricerche musicali “sul campo” in Israele, Serbia, Turchia e Tunisia lo hanno portato ad una profonda rivisitazione della tradizione sefardita e delle altre nazioni dei Balcani, del Mediterraneo e del Medio Oriente che, nei secoli passati, hanno condiviso il medesimo paesaggio storico, geografico e culturale. In questo straordinario concerto sarà accompagnato dai Yefira, il gruppo nato dall’incontro tra il cantante e polistrumentista italo/serbo/greco Aleksandar Sasha Karlic ed alcuni tra i migliori interpreti italiani specializzati nelle musiche dell’Est Europa e del Medio Oriente.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Concerto di Moro Kanuteh, kora e voce; Gianluca Sia, mandolino e sax; Gianpaolo Fini, percussioni; Francesco Battaglia, chitarra 7 corde; Maria Laura Privitera, voce e ukulele.
Cinco Letras è un progetto di incontro e scambio linguistico e culturale in cui si mescolano le tradizioni musicali dei mondi lontani dall’occidente globalizzato, in un viaggio che parte dalle antiche tradizioni popolari italiane all’America Latina, passando per l’Afghanistan per approdare infine ai canti dei griot dell’Africa Occidentale.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Concerto di Alberto Capelli, chitarra flamenca e mohan veena (chitarra indiana); Rocco Casino Papia, chitarra 7 corde.
In Árduo la vibrazione stilistica dell’universo colto e popolare brasiliano incontra la tensione dell’etno-jazz d’avanguardia. L’inclinazione romantica e intimista della chitarra 7 corde brasiliana si fonde con l’irruente tocco della chitarra flamenca e, nelle fasi più meditative, con le suggestioni orientali della mohan veena indiana.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Concerto di Mihretu Ghide, voce e krar; Michele Longo, calabash e percussioni; Casimiro Erario, tastiere e synth bass.
Il sorprendente incontro tra i canti in tigrino e le sonorità del krar (cordofono tradizionale dell’Africa orientale) del musicista eritreo Mihretu Ghide e la sperimentazione tra atmosfere etniche e ricerca elettroacustica del duo world/dub salentino Panacea crea un mondo sonoro “senza confini“ al tempo stesso antico e contemporaneo e dal fascino ipnotico e visionario.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Concerto di Davide Angelica e Paolo Prosperini, chitarra; Manuel Franco e Danilo Mineo, percussioni; Filippo Cassanelli, contrabbasso.
Come la celebre strada Panamericana collega l’Alaska con l’Argentina, allo stesso modo la band prende spunto dalle più svariate tradizioni musicali accostando con disinvoltura il son cubano al valzer musette, il jazz alla musica folk italiana ed europea, in uno show latinjazz-folk raffinato e al tempo stesso travolgente.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Ensemble Terra Mater: concerto di Angela Centanin, voce; Irene Benciolini, viola, santur; Ruben Medici, oud, mandolino, bouzouki, violino; Francesco Trespidi, musette, kaval, bansuri, flauti dolci, percussioni; Nicola Benetti, fisarmonica, chitarra, kantele, setâr.
Il Mare che Canta è un racconto sonoro sul fascino delle relazioni musicali della regione mediterranea. A questi cinque giovani polistrumentisti è affidato il compito di narrare il dialogo fra i popoli che da sempre vivono specchiandosi sul mare, riproponendo musiche e canti di tradizioni solo apparentemente distanti tra loro: dal canto sefardita alla ballata macedone, dalla lauda italiana ai ritmi della musica araba.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Sulle Orme di Django: concerto di Simone Marcandalli, chitarra solista e voce; Massimiliano Amatruda, fisarmonica; Antonio Balsamo, chitarra ritmica; Christian Pepe, contrabbasso.
A bordo di un carrozzone romanì, andremo alla scoperta delle diverse culture musicali che portarono negli anni ‘30 alla nascita del manochue, quel “jazz popolare” reso celebre dalla genialità di Django Reinhardt: dalla Francia della valse musette allo swing del dopoguerra italiano, incrociando virtuosismi klezmer-tzigani con le sonorità jazz statunitensi e i ritmi latinoamericani.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
concerto
Concerto di Luigi Garrisi, voce e chitarra; Alessandro Predasso, bouzuki; Stefania Megale, sax soprano e clarinetto; Francesco Paolino, chitarra e mandoloncello; Alberto Mammollino, percussioni.
In alcune case greco-salentine risuona ancora il griko, antico idioma neogreco dalla musicalità nobile e contadina al tempo stesso, nella quale i Mala Agapi (nome greco/latino dal doppio significato di “grande/cattivo amore”) hanno scelto di scrivere i propri testi. Tra ritmiche della tradizione mediterranea e melodie originali, un cantiere di suoni e persone in continua evoluzione con l’obiettivo di promuovere la straordinaria lingua greco-salentina attraverso la musica e la libertà.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
(Italia/1970) di E.B. Clucher (113')
Regia, soggetto e sceneggiatura: E.B. Clucher [Enzo Barboni]. Fotografia: Aldo Giordani. Montaggio: Giampiero Giunti. Scenografia: Enzo Bulgarelli. Musica: Franco Micalizzi. Interpreti: Terence Hill (Trinità), Bud Spencer (Bambino), Farley Granger (maggiore Harriman), Steffen Zacharias (Jonathan Swift), Dan Sturkie (Tobia), Gisela Hahn (Sara), Elena Pedemonte (Giuditta), Luciano Rossi (il timido), Ezio Marano (Faina), Remo Capitani (Mescal). Produzione: Italo Zingarelli per West Film. Durata: 113'
È un film western? Un film comico? Un western comico? Non esattamente: è un film di Bud Spencer e Terence Hill, che fa genere a sé, anche se all'epoca non si poteva sapere. Meglio: il film che inventa Bud Spencer e Terence Hill come entità singola e indivisibile (poco conta che avessero già recitato assieme in altri tre film, di Giuseppe Colizzi). Dopo i due Trinità, entrambi ottimi, non sarà affatto un problema, per loro e per noi, uscire da questo West senza appigli col reale e spostarsi a piacimento nella giungla amazzonica, alle corse sulla dune buggy, per le strade di Miami con la divisa della polizia. Questo sia detto senza sminuire E.B. Clucher (alias Enzo Barboni), che arriva al primo Trinità con alle spalle un solo film diretto (con scarsa incisività) e una rispettabilissima carriera da direttore della fotografia. Pare che proprio sul set dell'ennesimo spaghetti western violento, paranoico e uguale ad altri cento, Barboni abbia avuto l'illuminazione di provare una via diversa. Non che mancassero, fino a quel momento, i western con una vena scanzonata (anche I quattro dell'Ave Maria, per restare in tema Spencer & Hill, poteva contare su una buona propensione ironica). Ma ad essere obiettivi, prima di Trinità non c'era stato nulla di simile. Il film che ha rilanciato il western italiano in un momento di stanca, dicono alcuni. Il film che lo ha affossato definitivamente, sostengono altri (compreso Sergio Leone). È un dilemma stimolante, che consegniamo agli storici. Trinità, del resto, è un film che fa benissimo a meno di un contesto per essere capito e goduto. È un eterno ritorno all'infanzia, dove per stare bene ti bastano i piedi lerci, le battute svelte, le sfuriate che non portano a niente, due belle mormone bionde, una pignatta di fagioli e una vagonata di scazzottate acrobatiche. Facile. Anche se non è poi così facile avere un'infanzia felice. E non è affatto facile trovare un film che quella felicità è in grado di perpetuarla, una generazione dopo l'altra.
(Andrea Meneghelli)
Il merito di aver messo insieme me e Bud Spencer fu di Giuseppe Colizzi, con cui facemmo Dio perdona... io no!, I quattro dell'Ave Maria e La collina degli stivali. Dopo questi film io e Bud stavamo cercando lavoro, avevamo già visto due o tre copioni che non ci erano piaciuti. Intanto Barboni andava in giro per Roma con una sceneggiatura intitolata Lo chiamavano Trinità. I produttori l'aprivano e dicevano: "Cos'è tutto questo dialogo? Non ci sono morti? Passo!". Noi decidemmo subito di correre il rischio. Sì, perché era considerato da tutti un rischio fare un film così strano, con delle battute particolari. Lui aveva già pensato di farlo con altri due attori, George Eastman e Peter Martell, ma, visto che eravamo lì subito disponibili, ci disse che gli andava bene e che lo avrebbe fatto fare a noi. [...] Io avevo interpretato sempre ruoli drammatici, e quando uscì Trinità fui il primo a sorprendermi di questo successo anche perché non sapevo di essere divertente. Pensai: "Allora faccio ridere!".
(Terence Hill)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia-Francia/2002) di Emanuele Crialese (95')
Regia, soggetto e sceneggiatura: Emanuele Crialese. Fotografia: Fabio Zamarion. Montaggio: Didier Ranz. Scenografia: Beatrice Scarpato. Musica: Andrea Guerra, John Surman. Interpreti: Valeria Golino (Grazia), Vincenzo Amato (Pietro), Veronica D'Agostino (Marinella), Francesco Casisa (Pasquale), Filippo Pucillo (Filippo), Elio Germano (Pier Luigi), Muzzi Loffredo (Nonna). Produzione: Fandango, Les Films des Tournelles, Roissy Films. Durata: 95'
Copia proveniente da CSC - Centro sperimentale di cinematografia
L'isola è la concretizzazione di una condizione esistenziale. Per lavorare, ho bisogno di ‘isolarmi', nel senso di rinchiudermi in me stesso. Ma anche di partire alla volta di un altrove a me sconosciuto, dove ci siano comunità unite da sempre e dove io venga percepito come uno straniero. Mi piace l'idea di essere uno straniero, è una dimensione costitutiva di ogni essere umano, di ogni luogo, di ogni tempo.
(Emanuele Crialese)
Il Sud di Crialese non è più un luogo mitico prima della storia, ma uno spazio bianco rimasto dopo di essa. In questa visione onirica di un mondo (ma anzitutto: di un'Italia) dopo la storia, Crialese sceglie esplicitamente dei modelli che sono stati sotterraneamente presenti in molto cinema di questi anni, in cui il meridionalismo classico e i generi del cinema italiano si sono spesso rivelati inservibili. Il suo è il primo film italiano di questi anni che ricordi esplicitamente i romanzi di Anna Maria Ortese e di Elsa Morante. Respiro è una versione aggiornata dell'Isola di Arturo e del Cardillo addolorato: ha al suo centro una follia di donna che è una reazione irriducibile alla devastazione che ha vinto intorno. Nella letteratura isolana, esiste una linea di fantastico molto particolare, più vicina forse a certi esiti sudamericani che alla tradizione del fantastique di Todorov. Un fiabesco che tende all'allegoria, che non è fantastico fino in fondo perché non crede fino in fondo nemmeno alla consistenza della realtà. E molti scrittori siciliani tendono al bestiario, indagano il confine tra uomo e animale con un interesse particolare. È come se, in molti scrittori meglio se inclini al sarcasmo e alla contemplazione disincantata della storia, gli animali rappresentassero l'ultimo barlume di pathos possibile. Da Pirandello a Rosso di San Secondo a Joppolo, ai recentissimi Alajmo e Benfante, per giungere allo Zio di Brooklyn con i suoi cani che assediavano l'umanità, più si guarda l'uomo e la sua storia da lontano e più il confine tra umano e non-umano sfuma, alla ricerca di qualcosa di salvabile dopo la Storia, oltre la centralità dell'Uomo e del Progresso. La bellezza del mare, quasi insopportabile, abbagliante, non è comprensibile senza la terrificante devastazione del paesaggio. In mezzo, non c'è nulla. Non la città, non la società. Più che l'Eden, è il Day After. Crialese sente certo il fascino dell'arcaico, ma poi lo declina come il futuribile: e se lo strano non-tempo di Respiro, anziché un indefinito passato prossimo, fosse il prossimo futuro?
Crialese ha costruito situazioni visive che restano impresse nella memoria, fa sentire il mare, il caldo: il mare è inquadrato sempre dall'alto, mai così profondo e verticale, vertiginoso, pronto a inghiottire (e felicissima anche la scelta di filmare le ascensioni dal basso, esitando qualche istante sott'acqua quando la testa dei personaggi è riemersa: loro respirano già, lo spettatore no); e una Valeria Golino mai così brava, con gli occhi che fanno da pendant al mare verdeazzurro di Lampedusa, crea un personaggio potente e non psicologico, tutto gesti e nervi (bella la sua prima apparizione avvinghiata a un mangiadischi giallo, in cortile). Parla un dialetto impeccabile, si muove come una non-professionista (è un gran complimento) tra corpi e volti che rimangono in testa, una volta tanto, anche dopo che si è usciti dal cinema.
(Emiliano Morreale)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia-Francia/1961) di Valerio Zurlini (121')
Regia e soggetto: Valerio Zurlini. Sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Giuseppe Patroni Griffi, Valerio Zurlini. Fotografia: Tino Santoni. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Flavio Mogherini. Musica: Mario Nascimbene. Interpreti: Claudia Cardinale (Aida), Jacques Perrin (Lorenzo), Romolo Valli (don Pietro), Riccardo Garrone (Romolo), Gian Maria Volonté (Piero), Corrado Pani (Marcello). Produzione: Maurizio Lodi-Fé per Titanus/SGC. Durata: 113'
Non potrei dire cosa mi diede l'idea per La ragazza con la valigia. Probabilmente una vecchia casa di famiglia non più nostra; un certo tipo di educazione della quale evidentemente anche io sono parte, sono frutto; il gusto del paradosso; tante ragazzette che avevo incontrato nell'ambiente del cinema mentre cercavano di sfondare e di prendersi una piccolissima fetta della torta della vita; e poi un lontano incontro. Per il ruolo maschile mi rifeci a me, ai miei 16-17 anni, ma senza nulla di autobiografico; per quello di Aida, invece, a un incontro che davvero avevo avuto a Milano tanti anni prima, quando mi ci ero recato per girare un piccolo film pubblicitario per una marca d'automobili e c'era una ragazza che allora faceva la mannequin e poi è diventata abbastanza famosa. Parlammo tanto, e mi raccontava le piccole cose della sua vita.
Quando feci il film, mi rivenne in mente, mi ricordai certe storie di tenerezza e di solitudine a volte toccanti a volte divertenti che mi aveva raccontato, e così mi ritrovai il personaggio bello e pronto. Due personaggi diversissimi, due tipi molto diversi di solitudine, ma un cocktail riuscito, credo, pieno di calore, nato istintivamente. È un film, comunque, che avrebbero voluto fare tutti e tutte. Scelsi la Cardinale perché era buffa, curiosa, ingenua, era alle prime armi e io adoro lavorare con le persone alle prime armi, che hanno qualcosa dentro che ancora non è venuto alla luce. [...] Il soggetto era mio, c'erano un centinaio di pagine di mia stesura. Poi passò per le mani di Patroni Griffi e Medioli che lo adattarono in una certa direzione, però con me e restando vicini alle mie intenzioni. E poi intervennero Benvenuti e De Bernardi che fecero l'operazione più importante: dettero cioè ai due personaggi una fisionomia riconoscibile e scandirono i tempi della storia. A un dato momento Benvenuti continuò a sceneggiare da solo, molta parte creativa è sua.
(Valerio Zurlini)
Gran parte della forza drammatica di Zurlini risiede nell'intensità della recitazione degli attori. Per evitare le trappole dell'affettazione, il cineasta attribuisce grande importanza all'esattezza del tono e alla precisione del gesto. Sotto la sua direzione l'attore diventa una creatura a cui il cineasta instilla le riflessioni più delicate [...]. Valerio Zurlini appartiene alla tradizione dei cineasti del paesaggio. Nei suoi film la scenografia non è mai utilizzata per partito preso puramente estetico, ma è parte integrante dell'opera, riflettendo sempre la natura del dramma e la psicologia dei personaggi. Per il cineasta, definire un ambiente è già situare l'atmosfera del racconto. [...] Con Antonioni, Zurlini è il grande cineasta dei paesaggi degli stati d'animo.
Zurlini ci viene incontro con la sua sensibilità messa a nudo, la sua capacità di oltrepassare la crosta della realtà esteriore per scrutare l'interno degli esseri e delle cose. Nel realismo cinematografico italiano, Zurlini occupa una posizione affatto particolare: ciò che cerca di filmare è la realtà interiore. Il cineasta appartiene a una sorta di generazione perduta, solitaria e distante di fronte a un mondo senza qualità, lacerato dalle contraddizioni che lo spingono in un unico movimento verso l'esaltazione romantica e verso la volontà d'autodistruzione.
(Jean Gili)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/1964) di Pietro Germi (122')
Regia: Pietro Germi. Sceneggiatura: Age, Furio Scarpelli, Luciano Vincenzoni, Pietro Germi. Fotografia: Aiace Parolin. Montaggio: Roberto Cinquini. Scenografia: Carlo Edigi. Musica: Carlo Rustichelli. Interpreti: Stefania Sandrelli (Agnese Ascalone), Saro Urzì (Don Vincenzo Ascalone), Aldo Puglisi (Peppino Califano), Lando Buzzanca (Antonio Ascalone), Lola Braccini (Amalia Califano), Leopoldo Trieste (Barone Rizieri), Umberto Spadaro (cugino di Ascalone). Produzione: Franco Cristaldi per Lux-Ultra-Vides, Compagnie Cinématographique de France. Durata: 125'
Copia proveniente da per gentile concessione di Cristaldifilm
Sulla lapide di Vincenzo Ascalone campeggia la scritta: "Onore e famiglia". Lui, per tutto il film, non ha fatto altro che ordire stratagemmi sempre più catastrofici e occultamenti sempre più asfissianti, per salvaguardare e perpetuare questa diade intoccabile, su cui un intero equilibrio sociale pare necessariamente reggersi. Solo che tutto gli congiura contro: una figlia troppo bella (la Sandrelli qui è indimenticabile), il sole troppo a picco, una frenesia del desiderio che convenienze e convenzioni non sono in grado di arginare. Il risultato non può essere altro che un cocktail micidiale di schizofrenia e isteria collettive, che divora corpi spossati e nervi collassati, e fa sfilare un carosello di mostri degni di Goya. Il film è un prodigio ritmico e visivo, dove il divertimento, per quanto assicurato, si lascia infiltrare implacabilmente dalla desolazione grottesca in cui specchiare la nostra civiltà. Che non è solo quella siciliana dei lontani anni Sessanta.
(Andrea Meneghelli)
Il mio non è nemmeno un film molto siciliano, trae spunto dalla realtà siciliana, ci affonda dentro con tutte le radici per mirare a un significato assolutamente simbolico che è proprio quello dell'alienazione, cioè è la rappresentazione di uomini alienati da un mito che in questo caso è quello dell'onore, che in altri casi può essere un altro mito, può essere la Patria, il Denaro, la Religione, non lo so, ce ne sono tanti. È la rappresentazione di un mondo alienato, in chiave grottesca, quindi esasperata, quindi gonfia, con un lievito velenoso. [...] Mi piacerebbe che un critico dicesse "da questa storia che fa ridere si esce con un senso agghiacciato di paura, come dopo aver assistito ad una galleria di cose, di facce, di mostri".
(Pietro Germi)
Sedotta e abbandonata fu il secondo film che feci con Germi. In questo caso si trattò di un ruolo impegnativo, di un ruolo vero e proprio, tutto diverso da quello che nella vita potevo essere io. Inoltre era proprio una commedia. Germi mi aiutò a entrare nel personaggio con molta dolcezza, piano piano, un po' alla volta... era come un transfert. Lui poi aveva il dono di darmi la possibilità di concentrarmi, come pochissimi altri registi hanno saputo fare dopo. Non si incontrano ogni giorno registi come lui. Si racconta spesso in giro del suo caratteraccio, dei suoi urlacci. Quando sento questi discorsi mi viene rabbia, sono invenzioni.
(Stefania Sandrelli)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia-Francia/1964) di Vittorio De Sica (104')
Regia: Vittorio De Sica. Soggetto: dalla pièce Filumena Marturano di Eduardo De Filippo. Sceneggiatura: Renato Castellani, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tonino Guerra. Fotografia: Roberto Gerardi. Montaggio: Adriana Novelli. Scenografia: Carlo Egidi. Musica: Armando Trovajoli. Interpreti: Sophia Loren (Filumena Marturano), Marcello Mastroianni (Domenico Soriano), Aldo Puglisi (Alfredo), Tecla Scarano (Rosalia), Generoso Cortini (Michele), Vito Morriconi (Riccardo), Gianni Ridolfi (Umberto), Marilù Tolo (Diana). Produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia. Durata: 102'
Nel 1964 De Sica torna a Napoli per girare un film tratto dall'opera più celebre di Eduardo De Filippo, la sua "creatura più cara", già molto rappresentata in giro per il mondo (a Parigi da Valentine Tessier, a New York da Katy Jurado) - per non dire delle migliaia di repliche sui palcoscenici italiani, protagoniste prima una leggendaria Titina, sorella di Eduardo, poi Regina Bianchi. Preferisce tuttavia (o non può, o non osa) non intitolare il film Filumena Marturano. Del resto, Eduardo viene interpellato per la sceneggiatura, ma subito sparisce; all'opera si accinge una pattuglia dei soliti noti che hanno dato gloria al recente cinema italiano, e che rimodulano i tre atti della commedia in una scansione di flashback. Il titolo scelto è appunto Matrimonio all'italiana: ammicca, si traduce bene, ribilancia il peso dei divi. Sophia e Marcello sono all'apogeo della carriera, in un turbinio di Oscar e glamour, freschi della scena di spogliarello che lo stesso De Sica ha orchestrato per loro in Ieri, oggi e domani. Anche sui manifesti di Matrimonio all'italiana, non a caso, Sophia ride spavalda e in negligé. La sfida evidente è trasformare questa Loren, spettacolare e trentenne, nella consumata e drammatica Filumena. Per Mastroianni è più semplice: reinventa Domenico Soriano in chiave di gaglioffo amabile, galleggia da par suo sulla capacità di seduzione che in Eduardo era solo presunta o già sepolta. In un solo momento è davvero sordido. Ammette Filumena nella propria casa, e brutalmente le fa capire che è solo per far da serva alla vecchia madre, fino alle incombenze più umili. Lei accetta: senza rassegnazione, con scherno amaro verso se stessa e l'uomo da cui non può staccarsi. Sophia Loren è lì, la bellezza comunque imprescindibile, ma è come se il suo corpo assorbisse lo squallore di queste stanze, la loro muffa, il loro odore. Rende tutto palpabile, e si guadagna il diritto a essere Filumena Marturano, alla commedia dell'amore umiliato e della maternità scaltra, ai "figglie nun se pàvano" e a tutto il resto. Bel lavoro d'attrice, di direzione d'attrice e di scenografia. I set di Carlo Egidi sono tra le cose più pregevoli del film, gli ambienti del dopoguerra piccolo-borghese di Eduardo diventano interni fatiscenti, cavernosi, percorsi da un senso di disfacimento. Intorno, Napoli aggiornata al 1964 appare un luogo estraneo e involgarito: e infatti qua e là si canticchiano distrattamente le strofe nostalgiche di Munasterio ‘e Santa Chiara ("penz' a Napule cum'e ra..."). Alla fine troviamo i due alle falde del Vesuvio, in un paesaggio grigio, in una scena che ha non poco di assurdo: due vecchi amanti, che hanno avuto tutta la vita per disgustarsi a vicenda, cedono a un improvviso quanto improbabile riaccendersi del desiderio. Eppure in questo incongruo avvinghiarsi, così smaccatamente italian-international style (Carlo Ponti produce e sorveglia), De Sica, che è artista grande non meno che lucido uomo di spettacolo, fa esplodere il senso delle eduardiane "vite scaraventate l'una contro l'altra".
(Paola Cristalli)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/1953) di Luigi Comencini (94')
precede
IL PROCESSO DI FRINE
(episodio di Altri tempi - Zibaldone n. 1)
(Italia/1952) di Alessandro Blasetti (22')
Regia: Luigi Comencini. Soggetto e sceneggiatura: Ettore Maria Margadonna, Luigi Comencini. Fotografia: Arturo Gallea. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Gastone Medin. Musica: Alessandro Cicognini. Interpreti: Vittorio De Sica (maresciallo Antonio Carotenuto), Gina Lollobrigida (Maria De Ritis, la ‘bersagliera'), Roberto Risso (carabiniere Pietro Stelluti), Marisa Merlini (Annarella), Maria Pia Casilio (Paoletta), Virgilio Riento (don Emidio), Tina Pica (Caramella), Memmo Carotenuto (carabiniere Sirio Baiocco). Produzione: Titanus. Durata: 94'
Il titolo Pane, amore e fantasia lo trovammo in collaborazione io e Margadonna. Un napoletano mi aveva raccontato la storia di un povero che mangiava un pezzo di pane; un turista passando gli chiedeva: "Che stai mangiando?" e poiché col pane non c'era niente il povero rispondeva: "Pane e immaginazione". [...] Insistetti per avere la Lollobrigida, in modo da formare di nuovo la coppia dell'episodio della ‘maggiorata fisica' di Altri tempi. E fu fatta.
(Luigi Comencini)
Nel 1951 scoppia il ‘caso' di Due soldi di speranza di Renato Castellani: una commedia sentimentale girata in esterni da attori sconosciuti, con una freschezza e una spontaneità che la portano al successo, imponendola come prototipo di un nuovo genere, subito definito ‘neorealismo rosa'. Era un'indicazione che un produttore come Lombardo non poteva lasciarsi sfuggire. Così, a due anni di distanza da quel successo, egli scrittura l'autore del soggetto del film di Castellani, lo sceneggiatore Ettore M. Margadonna, un regista emergente, Luigi Comencini, due beniamini del pubblico, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, cui affianca dei caratteristi di gran mestiere, Tina Pica, Virgilio Riento, Memmo Carotenuto. La combinazione risulta più che azzeccata: e nel dicembre 1953 Pane, amore e fantasia, accortamente applicando per la prima volta in Italia la tecnica della commedia di costume hollywoodiana a un film ‘falso rustico', rilancia clamorosamente il ‘neorealismo rosa', ottenendo alla fine della stagione il primo posto assoluto nella classifica degli incassi.
(Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli)
Versione originale con sottotitoli inglesi
precede
IL PROCESSO DI FRINE
(episodio di Altri tempi - Zibaldone n. 1)
(Italia/1952) di Alessandro Blasetti (22')
Regia: Alessandro Blasetti. Soggetto: dal racconto omonimo di Edoardo Scarfoglio. Sceneggiatura: Alessandro Blasetti, Suso Cecchi D'Amico. Fotografia: Gábor Pogány, Carlo Montuori. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Veniero Colasanti, Franco Lolli, Dario Cecchi. Musica: Alessandro Cicognini. Interpreti: Vittorio De Sica (il difensore d'ufficio), Gina Lollobrigiga (Maria Antonietta Desiderio), Giovanni Grasso (il presidente del tribunale), Arturo Bragaglia (il pubblico ministero), Vittorio Caprioli (il farmacista). Produzione: Società Italiana Cines. Durata: 22'
Per gentile concessione di Ripley's Film
Quando scelsi la Lollobrigida per l'episodio del Processo di Frine aveva già fatto qualche film [...]. La prima scena la recitò con una certa sostenutezza perché non era abituata a sentirsi imporre tutto assieme un costume e una pettinatura che non gradiva al cento per cento. Però, appena si vide in proiezione, scese in teatro dove io stavo lavorando, mi diede di gomito e sottovoce disse: "Avevi ragione!" Quindi fu leale, e poi era dotata di una grossa intelligenza come attrice, avvertiva istintivamente quello che doveva o non doveva fare. È in questo film che De Sica parla di Gina come di una ‘maggiorata fisica', un termine che diventò molto di moda.
(Alessandro Blasetti)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/1954) di Luchino Visconti (123')
Regia: Luchino Visconti. Soggetto: Luchino Visconti, Suso Cecchi d'Amico, dal racconto omonimo di Camillo Boito. Sceneggiatura: Suso Cecchi d'Amico, Luchino Visconti, Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi. Dialoghi: Tennessee Williams, Paul Bowles; Fotografia: G.R. Aldò, Robert Krasker. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Ottavio Scotti. Interpreti: Alida Valli (Contessa Livia Serpieri), Farley Granger (Tenente Franz Mahler), Heinz Moog (Conte Serpieri), Massimo Girotti (Marchese Roberto Ussoni), Cristoforo De Hartungen (Generale Hauptmann), Rina Morelli (Laura), Christian Marquand (ufficiale boemo), Marcella Mariani (Clara), Sergio Fantoni (Luca), Tino Bianchi (Capitano Meucci). Produzione: Renato Gualino per Lux Film. Durata: 123'
Per gentile concessione di Cristaldifilm
Visconti ha sempre avuto fede, già prima di iniziare la sua attività pratica, nella ricchezza e nella validità, per il cinema, di una ispirazione letteraria [...]. Venne a lui naturale, così, di volgere gli occhi alle grandi costruzioni narrative del classici del romanzo europeo e di considerarle una vera fonte di ispirazione. [...] Con Senso si può dire dunque che nasce davvero, e nell'accezione di un Tolstoj o di un Nievo, il grande film storico, il romanzo cinematografico.
(Guido Aristarco)
La parola realismo mette addosso una singolare paura. [...] C'è di più: è invalsa la credenza, anch'essa singolare, che fare del realismo nel cinema voglia dire approfondire moti, sentimenti e problemi delle classi povere della nostra epoca. Come se fosse proibito a un regista realista indagare criticamente sui moti, sentimenti e problemi delle classi dominanti in una qualsiasi altra epoca, ricavandone una lezione d'attualità, naturalmente, allorché si va a ricercare nel passato i motivi che mossero o cristallizzassero determinati strati sociali. In Senso, una tragica storia d'amore non matura in una vaga atmosfera risorgimentale. Essa nasce e si conclude in un preciso momento storico, nel 1866, a Venezia, durante la dominazione austriaca. E la contessa Serpieri con i suoi aneliti di libertà presto travolti dall'insana passione per l'austriaco tenente Mahler mi sembra un personaggio tipico d'una appartenente a una classe dominante in piena crisi, alla vigilia d'una crisi politico-militare, sfociata nella sconfitta di Custoza. Ma anche il giovane Mahler, cinico e sfrontato, avido e perfido, mi sembra il personaggio tipico d'una classe dominante, altrettanto in sfacelo, come quella austriaca in quel tempo.
(Luchino Visconti)
Quando lessi Senso, tanto la sceneggiatura quanto la novella di Camillo Boito, capii che mi trovavo di fronte a uno di quei personaggi dalle molte facce tutte altrettanto valide e affascinanti. Il timore di affrontare un simile personaggio non ebbe più ragione d'essere quando seppi che sarei stata diretta da Luchino Visconti. Pensai subito che la maniera migliore era quella di rimettermi completamente a lui e lasciare che la personalità della contessa Livia Serpieri, da lui scoperta, si impossessasse di me per permettermi di usare, senza sforzo alcuno, gesti, movimenti, espressioni che non potevano che scaturire e appartenere a quel personaggio e che io andavo man mano scoprendo e conoscendo. Il mio processo di rilasciamento apriva così due porte: l'una per il completo assorbimento della personalità della contessa Serpieri, l'altra per la facile aderenza al mondo di Visconti. Quando vidi per la prima volta Senso, completamente montato, mi accorsi che soltanto la direzione di Visconti e il mio quotidiano adattamento psicologico avevano dato vita ad un personaggio che aveva di nuovo mille facce.
(Alida Valli)
Versione originale con sottotitoli inglesi